La didattica dopo il COVID

La prima necessità da fronteggiare in ogni ambito, in queste settimane, è sicuramente la gestione dell’emergenza. Non credo sia opportuno, però, rinviare del tutto una riflessione sulle trasformazioni che la condizione che stiamo vivendo potranno determinare sulle nostre attività future, anche allo scopo di trarre il massimo possibile giovamento dalle pur drammatiche esperienze odierne. Come spesso accade durante le emergenze e le situazioni eccezionali, stiamo tutti riscoprendo il valore delle azioni e delle abitudini quotidiane alle quali siamo momentaneamente chiamati a rinunciare, ma stiamo anche imparando cose nuove, scoprendo modi diversi per svolgere il nostro lavoro. E’ facile quindi prevedere che, quando tutto questo sarà finito, saremo più esperti e capaci di introdurre, nelle nostre normali attività, anche una parte delle nuove esperienze acquisite in questi giorni.

Nel mondo universitario, l’ambito che sta subendo la più profonda rivoluzione è sicuramente quello della didattica, interamente trasferita su piattaforme informatiche per svolgere le lezioni “a distanza”. La percezione oggi più diffusa è probabilmente la perdita di una parte essenziale dell’esperienza didattica, per la mancanza del contatto diretto con gli studenti. Allo stesso tempo, però, quasi tutti stiamo verificando che il ricorso alle piattaforme informatiche apre spazi importanti, ad esempio per la possibilità che viene offerta agli studenti di disporre di video-registrazioni delle lezioni, che potranno poi riguardare con i loro tempi al momento della preparazione dell’esame (o anche subito dopo la lezione, nel caso in cui qualche passaggio sia risultato di difficile comprensione o abbia scontato una naturale momentanea perdita di concentrazione). Il commento forse più frequente tra chi oggi impartisce didattica a distanza è quindi: “non è la stessa cosa, ma tutto sommato funziona!”.

E’ pensabile o desiderabile che tutto questo venga dimenticato quando sarà superata l’emergenza?

La “rivoluzione informatica”, costantemente in atto da almeno trent’anni, ha determinato grandi trasformazioni nei diversi comparti del sistema produttivo ed economico. In alcuni settori gli strumenti informatici e di telecomunicazione hanno determinato una drammatica riduzione del numero di operatori necessari (come ad esempio in quello bancario, dove la quasi totalità delle operazioni vengono ormai svolte da ciascun utente sulle proprie app), mentre in altri settori l’informatica si è “limitata” a determinare grandi trasformazioni nelle modalità di lavoro e nelle procedure utilizzate, senza ridurre il numero di lavoratori impegnati. E’ ciò che è avvenuto, ad esempio, in gran parte delle professioni (avvocati, ingegneri, psicologi…) o, nei nostri campi, nell’attività di ricerca ed in quella didattica. Fino ad oggi, infatti, in quest’ultima abbiamo sostituito i vecchi “lucidi” delle lavagne luminose con presentazioni PowerPoint (o Beamer, per chi ama il Latex ed il software open source come il sottoscritto), cominciato a condividere il materiale didattico su piattaforme cloud come DropBox o Google Drive, ma le lezioni sono rimaste quasi sempre uguali a quelle di vent’anni fa (non faccio ovviamente riferimento ai contenuti, ma alle modalità di erogazione).

Cosa succederà/succederebbe nel momento in cui si diffondesse l’impiego di piattaforme per la didattica a distanza e, in particolare, l’utilizzo della registrazione video delle lezioni?

Il cambiamento più immediato che possiamo aspettarci è, ritengo, la prevedibile riduzione del numero di docenti necessari. Se un corso può essere registrato e messo a disposizione degli studenti, non c’è più ragione di disporre in ogni ateneo di dieci o venti docenti di Analisi Matematica o di Storia contemporanea o di Diritto Privato: ne basteranno uno o due per settore, in un ateneo, per coprire tutti i corsi. Subito dopo, partendo da qui, si penserà anche alla possibile condivisione dei cicli di lezioni tra diversi atenei, portando ad un’ulteriore riduzione del numero dei docenti necessari. Volendo mantenere una certa diversificazione degli approcci e una forte specializzazione dei docenti, si può facilmente immaginare che il lavoro oggi svolto da circa 50.000 docenti universitari potrebbe essere allora affidato a 2.000 o, al più, 5.000 professori. Con un risparmio per le casse dello Stato – particolare ovviamente non trascurabile – di almeno 4,5 miliardi di euro l’anno…

Non penso ovviamente che dobbiamo attenderci da un anno all’altro un’evoluzione del genere né che davvero il punto di arrivo sia così “estremo”, ma è prevedibile che progressivamente verranno incentivate le modalità di erogazione della didattica in forma “blended” (possibilità già contemplata, ma pochissimo praticata), gli scambi di materiale didattico tra gli atenei per poi, dopo un poco, cominciare a dire che ci sono troppi docenti e che tutto sommato si può ricominciare a tagliare…

Credo che difficilmente si potrebbe considerare favorevolmente una simile prospettiva e non certamente per una forma di difesa corporativa della categoria dei docenti universitari, che sarebbe eticamente inaccettabile ove comportasse un ingiustificato aggravio dei costi per la collettività. Una trasformazione come quella ipotizzata sarebbe piuttosto da rifiutare perché comporterebbe un’involuzione del sistema della formazione superiore, per il valore fondamentale ed insostituibile del contatto tra docenti e studenti, per l’impoverimento culturale derivante dalla standardizzazione degli insegnamenti, per l’indebolimento delle potenzialità di ricerca e innovazione delle università (dato che i docenti universitari dedicano una parte significativa del loro tempo alla ricerca, per cui la loro riduzione impoverirebbe anche questo ambito) e per numerose altre ragioni facilmente rilevabili da chiunque conosca il sistema universitario.

D’altra parte, però, una pura battaglia di contrasto ad un processo di questo tipo, poderosamente spinto da ragioni di efficienza, di economia e di oggettivo miglioramento degli strumenti informatici e delle possibilità da essi assicurate offrirebbe solo una debolissima resistenza, che si tradurrebbe in una posizione di retroguardia difficilmente sostenibile e, in ultima analisi, assolutamente perdente. Come sempre, l’unica possibilità per evitare un’evoluzione negativa non è quindi il mantenimento dello status quo, ma, al contrario, la proposta di una “diversa” evoluzione, che faccia proprie tutte le ragioni del cambiamento e lo guidi in una direzione migliore.

Nel caso della didattica credo che questo si traduca in una trasformazione che sappia fare tesoro di tutti gli strumenti disponibili e che promuova il trasferimento su piattaforme informatiche di tutte le parti puramente “contenutistiche” dei diversi insegnamenti. La spiegazione di un teorema, la deduzione di un’equazione fisico-matematica, la narrazione dei fatti storici, la presentazione dei principi della fisiologia o della biologia molecolare o dei codici di procedura civile o di diritto penale possono tranquillamente essere affidate a lezioni “cattedratiche” di studiosi esperti, che potranno registrarle e renderle disponibili ai propri studenti (o anche a quelli di altri atenei, come oggi avviene con i “libri di testo”) per una fruizione asincrona.

Questa trasformazione, d’altra parte, libererebbe tempo e risorse per diversi tipi di esperienze formative che si sottraggano ad ogni possibile massificazione e che richiedano invece interazioni dirette e continue tra docenti e studenti. I docenti potrebbero in questo modo potenziare molto le parti “applicative” e “laboratoriali” dei loro insegnamenti (negli ambiti in cui questo sia utile ed opportuno) e trovare spazio per tutte le forme di “apprendimento attivo” che rendano gli studenti protagonisti – e non semplici spettatori – delle lezioni. Su questo ambito si è da tempo avviata un’ampia riflessione a livello nazionale ed internazionale, alla quale il Progetto Mentore dell’Università di Palermo sta dedicando un’attenzione ormai pluriennale, con diversi workshop e momenti seminariali e confronti con i maggiori esperti internazionali. Non entrerò qui nel merito delle ragioni per cui la pedagogia più avvertita considera ormai essenziale il coinvolgimento diretto dei discenti nei processi di apprendimento, ma rimando ad alcuni testi che possono aiutare ad approfondire il tema (tra i tanti, The Handbook of Transformative Learning: Theory, Research, and Practice di Edward W. Taylor e Patricia Cranton e la rivista Active Learning in Higher Education).

Inoltre, una volta affidato ad un corpus di materiale disponibile su supporto informatico buona parte del contenuto “informativo” dei singoli insegnamenti, si potrà anche dedicare tempo ed attenzione a percorsi personalizzati, capaci di riconoscere le specifiche carenze di studenti – o di gruppi di studenti – per fornire gli strumenti necessari per superarle o, al contrario, per rilevare e valorizzare particolari capacità e inclinazioni che in un percorso formativo standard sono destinate a rimanere nascoste ed inespresse.

I percorsi formativi, inoltre, potrebbero dare uno spazio molto più ampio al coinvolgimento degli studenti nelle attività di ricerca, rendendo ancora più effettiva quella interazione tra didattica e ricerca che costituisce una delle principali ragioni di esistenza delle università moderne.

La risposta più efficace alla possibile deriva verso una didattica impersonale e standardizzata sarebbe in questo modo rappresentata da un potenziamento ed una valorizzazione delle differenze e delle specificità individuali, trasformando l’esperienza didattica in un momento di massima espressione dell’interazione tra studente e docente, irriducibile al trasferimento su qualsivoglia piattaforma informatica.

Se vogliamo evitare che la drammatica esperienza della pandemia che stiamo attraversando non lasci niente di buono nel nostro sistema e che, al contrario, finisca solo con il velocizzare trasformazioni poco desiderabili, credo sia opportuno cominciare subito a ragionare su questi temi, pronti a ricostruire un nuovo modo di essere università e di dare ancora più valore alla creazione e diffusione della conoscenza. E’ quindi importante che la riflessione e la trasformazione in questa direzione avvengano al più presto, come auto-riforma del sistema universitario e non come risposta difensiva ad un nuovo eventuale prossimo tentativo esogeno di compressione degli spazi della formazione pubblica.

10 pensieri riguardo “La didattica dopo il COVID

  • 30 Marzo, 2020 in 1:27 am
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    Caro Enrico,
    come sempre lanci degli ottimi spunti su cui riflettere. In questo periodo sto tenendo molte lezioni on line e lo sforzo è sicuramente molto elevato anche perchè sono state pensate per una modalità di erogazione diversa. Certamente la didattica on line potrà offrire diversi vantaggi anche se andrà pensata con quella specifica finalità e non so, almeno all’inizio, quanto sarà un risparmio di tempo e di denaro. Gli studenti che ho adesso seguono abbastanza bene e cerco di fare soventi “interrogazioni” per comprendere quanto in effetti gli arriva e tutto sommato direi che va bene. Ma la certezza del nostro operato l’avremmo tra qualche mese. L’Università on-line è comunque presente da tempo così come anche licei e altre scuole superiori ma non hanno, almeno per ora, lo stesso fascino e successo di quelle diciamo “tradizionali”. Per un impiego massiccio di queste tecnologie andrebbe ripensata la didattica non come lezioni erogate dal docente ma come piattaforme interattive con pop-up e link, altrimenti non credo che vi sia davvero un vantaggio educativo. La situazione generata da questa emergenza ci spinge però anche a riflettere su quante possibili implicazioni positive ci possono essere in tale erogazione (ad esempio studenti malati, disabili, studenti impossibilitati a spostarsi, erogazioni in differita per studenti lavoratori, stranieri). Forse inizierei a pensare a questa altra realtà di possibili studenti che a volte tralasciamo e che con queste tecnologie potremmo avvicinare ancora di più allo studio “presso” il nostro Ateneo. Invece di aver paura di ridurre il numero dei docenti penserei di più a come queste tecnologie potrebbero favorire l’incremento del numero di studenti e includere quelle realtà che non abbiamo raggiunto ( o parzialmente) fino ad adesso. Forse sono troppo ottimista!?

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  • 30 Marzo, 2020 in 10:32 am
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    Caro Enrico,
    anch’io mi sono interrogato da subito sulle implicazioni future di questa trasformazione. In realtà penso che l’orizzonte sia ancora più grave, non su scala di Ateneo, ma nazionale. I docenti si ridurrebbero a esercitatori e verificatori, appunto in stile Nettuno, per non dire CEPU, con il definitivo declassamento degli atenei di “provincia” a semplici “teminali” degli atenei di “eccellenza” come sempre autopromossi tali.
    Quello di cui dobbiamo tenere conto è qual è la necessità del sistema produttivo italiano, che sarà oltremodo declassato dalla crisi. L’Italia ha il triste primato contemporaneo del numero minimo di laureati e il numero massimo di laureati disoccupati. Non dipende dal fatto che gli studenti si iscrivono a papirologia (con tutto il rispetto), ma il fatto che sono chiusi gli sbocchi tradizionali PUBBLICI della scuola, della sanità (e lo stiamo vedendo) delle professioni che sono alla canna del gas (avvocati, architetti). Anche tra gli ingegegneri, nonostante quello che si dice, c’è una grande “declassificazione” (i nostri ragazzi pagati a 1.300 euro al mese a Milano o Roma: altro che classe dirigente! sono il nuovo proletariato intellettuale). In sostanza questa sarà una ghiotta occasione per il sistema economico italiano (io lo chiamo il capitalismo, scusate) per ristrutturare a propria necessità il sistema universitario.
    Tu dici: non possiamo arroccarci sul passato (se non si fanno più le carrozze non ha senso produrre fruste, si diceva). Giusto. Ma il futuro qual è? E’ questa la domanda. Se non c’è uno scatto nella richiesta dei propri diritti e accettiamo quello che avviene come il diluvio universale e non come una logica che alcuni (pochi) uomini impongono a tutta l’umanità, non abbiamo al giusta chiave di lettura.
    Quindi: 1) lo stato deve tornare a essere il massimo investitore in tutti i settori, basta col la solfa che il privato è bello; 2) le risorse ci sono (spese militari, trasferimenti ai privati, VATICANO, banche, ….); 3) non facciamoci prendere per i fondelli tra MES e Coronabond, stanno litigando per quale corda usare per impiccarci: sono sempre debiti che prima o poi peseranno sul nostro groppone, bisogna spendere a credito stampando moneta. Finalmente è sotto gli occhi di tutti cos’è l’euro!

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  • 30 Marzo, 2020 in 11:16 am
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    Gentilissimo Collega, ti ringrazio per avermi offerto la possibilità di esprimere la mia opinione su quella che ritengo sarà una svolta epocale nell’ambito della Istruzione, nel senso più alto e ampio del termine.
    Sono convinta che l’uso della didattica a distanza, ha costretto molti di noi ad un superlavoro per l’adeguamento a “piattaforme digitali” fino ad ora sconosciute ed all’utilizzo di “mezzi tecnici” (PC e collegamenti web) talvolta inefficienti; ma, allo stesso tempo ha fatto emergere un problema che nella nostra Sicilia è ancora presente: non tutti i nostri utenti (studenti e famiglie) sono in grado di fruire della “didattica erogata a distanza”. La situazione di emergenza causata dal Covid-19 forse produrrà un piccolo effetto positivo se, oltre a migliorare la nostra capacità di utilizzo dei mezzi informatici, ci consentirà di colmare il divario esistente tra studenti del Sud-Italia e studenti del Nord.
    Detto ciò, convinta dell’assoluta validità del confronto produttivo tra docenti e studenti, sono sicura che ognuno di Noi dovrà interrogarsi sul come trasformare la propria “didattica” affinché non venga appiattita in un mero insieme di “registrazioni” cristallizzate in un formato standard. Buon lavoro a tutti Noi
    A presto !

    Risposta
  • 30 Marzo, 2020 in 12:11 pm
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    Caro Enrico,
    ho letto con piacere e interesse il tuo articolo dal titolo “La didattica dopo il COVID” e non sono riuscito a trattenermi dal cogliere il tuo invito a partecipare al dibattito con un ulteriore spunto “provocatorio” di riflessione per te e gli altri colleghi che avranno la pazienza di leggerlo.
    Premetto la difficoltà a fare un discorso “generico” che riesca a trarre delle conclusioni valide per tutte le “anime” del nostro Ateneo. E non mi riferisco soltanto alle sfaccettature culturali di ciascuno di noi (umanistiche, tecnologiche, biomediche, cliniche, etc.) ma anche al diverso modo di “vivere” l’Ateneo.

    Non voglio entrare nel merito dei docenti che vivono in un’altra città e/o in un’altra regione, per i quali bisognerebbe fare delle considerazioni molto più approfondite. E neanche rivolgere il mio pensiero a quei colleghi che, avendo già un gran numero di forti motivazioni per ricominciare il percorso di crescita culturale proprio o della propria disciplina, bruscamente interrottosi, non vedono l’ora di ricominciare la vita di tutti i giorni.

    I drastici tagli alla ricerca, l’impossibilità per molti di avere un contributo anche minimo per portare avanti una ricerca “curiosity driven”, la riduzione significativa del numero di dottorati e dottorandi, l’eccessiva burocratizzazione del sistema complicata da regole interne spesso incomprensibili e altri eventi negativi hanno fatto sì che molti colleghi abbiano progressivamente tirato i remi in barca vedendo l’Università come un “datore di stipendio” per meritarsi il quale si può/deve fare il meno possibile, limitando “i danni” a carico del proprio sistema nervoso e delle proprie arterie e godendosi nelle maniere più disparate il tempo libero. Quella che si presenta ai loro occhi (la possibilità addirittura di non dovere andare in Ateneo neanche per fare lezione, limitando anche il numero di incontri con colleghi con cui non si ha alcun afflato umano) può essere un’opportunità da cogliere, tuttavia, a discapito degli studenti. Su cui adesso sposto le mie riflessioni.

    Le lezioni a distanza sono un abominio!

    E non solo per tutte le considerazioni (che condivido) che tu hai fatto nel tuo articolo, in primis la riduzione dell’interazione docente-studente, ma anche perché determinano una drastica riduzione di una interazione – a mio modo di vedere – ancora più preziosa per la loro crescita umana e professionale, ossia quella tra studente e studente!
    Come saremmo cresciuti noi se non avessimo avuto modo di interagire, discutere, litigare, riunirci in assemblea, organizzare manifestazioni o dibattiti pubblici, creare o mantenere associazioni studentesche coi nostri colleghi ai tempi dell’università? Avremmo maturato lo stesso spirito critico, gli stessi convincimenti ideologici, la stessa propensione al dibattito che abbiamo ora o tutto sarebbe stato più appiattito? Vogliamo prenderci la responsabilità di costruire una generazione di laureati cerebralmente appiattiti? Penso di no, penso che non lo voglia neppure il più svogliato dei nostri colleghi.

    I docenti universitari, quindi, per me hanno il dovere morale di vivere e animare l’ateneo per il quale hanno scelto di lavorare anche tramite lezioni, esercitazioni, laboratori, seminari, ricevimento, esami e quant’altro “in presenza”. Perché solo in questa maniera favoriranno davvero l’interazione tra le generazioni del futuro e lo sviluppo del loro pensiero critico. Questa esperienza della didattica a distanza, al termine di questa emergenza, va consegnata al passato o comunque “congelata” per essere ripresa solo in circostanze di gravi emergenze quali quella che stiamo vivendo.

    Infine, non dobbiamo nasconderci un altro problema che questa situazione farà emergere: il ritorno al lavoro usuale da parte di alcuni docenti che hanno accolto favorevolmente questa esperienza potrebbe essere vissuto negativamente, proprio per le ragioni che denunciavo sopra: anche i docenti vanno “motivati” a fare sempre meglio il loro lavoro, per prima cosa dando loro strumenti di aggiornamento e di ricerca; bisognerà quindi non lasciarsi sfuggire questa opportunità per pensare a come incentivare nuovamente i docenti che, negli anni, hanno perso le motivazioni che avevano all’inizio della loro carriera. Trasformare le difficoltà in opportunità è infatti un principio che dovrebbe essere insito in tutte le crisi per uscirne più forti di prima o comunque con meno danni.

    Mi fermo qui per rispettare l’obbligo della brevità dell’intervento. Chi volesse approfondire le motivazioni della mia contrarietà alle lezioni a distanza, in particolare in merito alle “opportunità di interazione tra maestro e discepolo” e alla “genesi e trasmissione del sapere” in ambito accademico, può leggere qui un altro mio breve contributo: https://www.younipa.it/2020/03/17/unipa-prof-cappello-mai-mi-rassegnero-alle-lezioni-a-distanza/28712/
    Molti cordiali saluti.

    Francesco

    Risposta
    • 30 Marzo, 2020 in 12:44 pm
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      Caro Francesco,
      mi trovo assolutamente d’accordo con quanto hai scritto.
      La mancanza dell’interazione studente-studente è forse la cosa che si sta sottovalutando di più. Non solo dal punto di vista dello scambio di idee in ambito didattico, ma anche dal punto di vista delle reti di conoscenza interpersonale che possono instaurarsi.
      Quanti progetti, start-up, piccole imprese sono nate proprio dal confronto in ambito accademico tra due o più brillanti studenti?

      Anche noi docenti possiamo essere stimolati da una domanda, da una osservazione di un nostro studente, portandoci a migliorare la nostra ricerca
      Non sottovalutiamo questi aspetti.

      Ci bastano già le “terrificanti” università online dove lo studente fa scorrere il video della lezione, per poi studiare acriticamente delle dispense che per dirla nel nostro magnifico dialetto sono “il cunto di li cunti”.

      Tecnologia si, ma con “juicio”

      Marco

      Risposta
  • 30 Marzo, 2020 in 3:20 pm
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    Caro Enrico,

    ti ringrazio moltissimo per avere avviato questo necessario
    dibattito. Tutto quello che scrivi è vero e condivisibile.

    Il mondo dell’educazione superiore si sta in parte spostando verso
    l’active learning o il problem-based learning, non tanto per fare
    fronte ad emergenze che impongono l’uso di strumenti telematici,
    quanto piuttosto per rispondere all’avanzata dei Massive Open Online
    Courses (MOOC) e delle piattaforme che offrono didattica online di
    alta qualità. Ciò si verifica ormai da qualche anno, almeno
    dall’ingresso nel mercato dell’educazione di Coursera come spinoff di
    Stanford University nel 2012 (16 milioni di dollari di investimento
    iniziale, ora è una billion+ company).

    Ciò non ha nulla a che vedere con il concetto di università telematica
    che si è andato affermando in Italia. Una persona compra un MOOC
    perché vuole imparare ed eventualmente ottenere un
    certificato. Viceversa, una persona compra un corso di università
    telematica perché gli serve un pezzo di carta. Lo spostamento
    dell’attenzione dello studente-consumatore è dall’apprendimento alla
    valutazione. Ciò che interessa al cliente medio di università
    telematica è il superamento degli esami ed il conseguimento di un
    titolo.

    Per queste ragioni, se si parla di evoluzione della didattica non si
    può evitare di parlare di evoluzione della verifica di
    apprendimento. A questo proposito, l’Università di Palermo in che
    direzione sta andando? Se le circostanze ci impongono di spostare
    anche la verifica di apprendimento su una piattaforma informatica, è
    sostenibile il mantenimento dell’impianto attuale?

    Se osserviamo il calendario didattico di ateneo, esso riserva in un
    anno 24 settimane alle lezioni e 18 settimane agli esami, lauree
    escluse. Ora ci troviamo ad affrontare, nel mese di aprile, la
    difficilissima sfida di riportare su piattaforma telematica gli esami
    della nona sessione d’esame dei corsi erogati nella primavera del
    2019. E’ normale dare agli studenti otto (nove per i fuori-corso)
    opportunità di essere valutati per uno stesso corso in un anno?

    Così come è ormai chiaro per tutti che la lezione online richiede un
    investimento di tempo superiore a quello della lezione in presenza,
    allo stesso modo sarà presto evidente che fare esami online è molto
    più impegnativo. Già si è messa in conto l’estensione della sessione
    primaverile oltre il 24 aprile per consentire lo svolgimento di tutte
    le prove ed i colloqui previsti, in questo modo aumentando la
    sproporzione tra tempo dedicato alla valutazione e tempo dedicato
    all’insegnamento. Ma se per disgrazia dovessimo effettuare esami in
    questo modo anche a giugno e luglio, per molti di noi significherebbe
    predisporsi a fare solo quest’attività per un mese e mezzo (con il
    pericolo di incontrare in videochat lo stesso studente per tre volte),
    con buona pace della nostra attività di ricerca.

    Come tu suggerisci, se riteniamo di abbraccire le nuove opportunità
    che la tecnologia ci offre dobbiamo farlo ripensando il modo di
    impostare le nostre lezioni in presenza. Ancor più, a mio avviso,
    dobbiamo ripensare le modalità di verifica dell’apprendimento ed il
    peso che gli esami hanno nella nostra attività di docenti e di
    ricercatori. Altrimenti finiremo per entrare in competizione con le
    università telematiche che, nel nostro paese, non sviluppano
    conoscenza ma erogano pezzi di carta, alla faccia della
    dematerializzazione digitale.

    Un cordiale saluto
    Davide

    Risposta
  • 30 Marzo, 2020 in 3:47 pm
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    Caro Enrico,

    grazie intanto per l’interessante spunto di discussione. Partirei ricordando la seggezza degli antichi “in medio stat virtus”…Anche se, prima del coronavirus, il docente che avesse voluto avrebbe già potuto caricare ogni sorta di lezione e materiale di sussidio ad “effetti speciali” sul proprio sito didattico, a beneficio degli studenti. Francamente mi auspico che l’università pubblica non si telematizzi troppo, di fake-lauree è già pieno il “mercato”…D’altro canto, non possiamo nasconderci che non tutto il corpo docente (mi ci metto dentro) ha vissuto e sta vivendo la rivoluzione telematica della didattica senza un moto di ripulsa e con l’autocompiacimento della superiorità…In questo senso, forse l’obbligatorietà di alcuni corsi di aggiornamento non avrebbe guastato…La nostra generazione non ha fondato il proprio apprendimento sulla “visione”, bensì sulla “meditazione”, ed il metodo non mi sembra abbia dato cattivi frutti…Sul metodo della “visione” è ancora troppo presto per pronunciarci, se mai ne avremo il tempo…

    Cari saluti

    Luigi

    Risposta
  • 31 Marzo, 2020 in 8:44 am
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    Caro Enrico,
    ti ringrazio molto per le tue considerazioni e gli stimoli che condivido. Nel seguito mi limiterei ad alcune brevi considerazioni su alcuni aspetti.

    1) Come ricorderai, nell’ambito del progetto mentore abbiamo affrontato l’argomento dell’e-learning in due seminari tenuti dal prof. Giuseppe Silvestri in cui si è ricordato che gli Atenei più prestigiosi a livello mondiale sono attivi da tempo con la didattica a distanza, seppur con esiti contrastanti. In quelle occasioni, si è ricordato che oggi a differenza del passato è disponibile una quantità immensa di informazioni facilmente accessibili per gli studenti su quasi ogni argomento. Di conseguenza, il docente da tempo non è più il depositario unico della conoscenza, ma sempre più dovrebbe aiutare gli studenti a sviluppare un approccio per muoversi tra le informazioni disponibili con capacità critica in modo da potere autonomamente discernere tra queste. La didattica frontale basata soprattutto sulla trasmissione delle conoscenze sembra sempre meno rilevante e sembra sempre più importante un approccio didattico mirato a sviluppare senso critico. Come è stato detto in un altro seminario, c’è da tempo un cambiamento in atto da (i) docente che trasmette informazioni e insegna procedure per risolvere problemi standard e ripetitivi a (ii) docente che aiuta gli studenti a sviluppare un approccio critico per risolvere problemi complessi sempre nuovi e diversi ma comunque dati dall’esterno a (iii) docente che aiuta gli studenti a porre domande critiche per cercare di decodificare la complessità.

    2) Come ricordato in un altro seminario tenuto dal prof. Andrea Cozzo, per rifarsi al mondo greco si potrebbe (semplificando e inevitabilmente falsificando e scusandomi con gli esperti e con il relatore del seminario per le inevitabili forzature …) raggruppare l’insegnamento in tre grandi tipologie: (i) il maestro di un solo discente che guida e asseconda la crescita dello studente come il giardiniere asseconda e guida la crescita dell’albero, dove l’insegnamento dipende fortemente dalle specificità dello studente; (ii) il professore che riversa sugli studenti conoscenze eguali per tutti con un’ampia distanza (in tutti i sensi) tra docenti e discenti; (iii) il docente socratico che costruisce insieme agli studenti la conoscenza. Tra queste tre macro-alternative, si dovrebbe forse oggi mirare verso una sintesi tra il primo e l’ultimo approccio: un docente socratico che costruisce la conoscenza insieme agli studenti tenendo conto delle differenze tra di loro e cercando di erogare una didattica differenziata per gruppi sulla base delle diverse situazioni di partenza e dei diversi stili di apprendimento.

    3) In una regione svantaggiata da tutti i punti di vista come quella della nostra regione, l’università potrebbe (e forse dovrebbe) aspirare a compensare questa situazione di svantaggio fornendo agli studenti una formazione di alto livello e adeguata ai tempi. Si dovrebbe forse tendere sempre più verso una didattica che aiuti gli studenti a decodificare le informazioni disponibili e la complessità del mondo reale, che supporti gli studenti a sviluppare un approccio critico e costruttivo, differenziando la didattica per gruppi di studenti, fornendo sia strumenti più complessi che metodi più semplici ma comunque efficaci per trovare un lavoro e svolgerlo in modo positivo per la società.

    Per fare tutto ciò la didattica a distanza non sembra certamente la soluzione; al contrario appare sempre più utile una didattica maggiormente partecipativa. La didattica a distanza può essere, mi sembra, un utile supporto a corollario di una didattica che coinvolga sempre più gli studenti, che aiuti a sviluppare senso critico, che tenga conto delle specificità dei discenti, che differenzi obiettivi e approcci e che lavori sia sull’interazione tra docenti e studenti sia sull’interazione tra studenti. Ovviamente, la didattica non si modifica in pochi mesi. È un cammino che richiede tanti piccoli passi che deve tenere conto anche delle specificità del docente, delle sue propensioni e dei suoi punti di forza. Eppure, è un cammino certamente possibile, se si vede, ad esempio, come diversi docenti del progetto mentore abbiano negli anni progressivamente modificato i loro corsi con successo, o come diversi docenti dell’Ateneo indipendentemente eroghino una didattica davvero efficace.

    In quest’ottica, il nostro Ateneo, a mio modesto modo di parere, dovrebbe fornire sempre più strumenti ai docenti per aiutarli a riflettere sul ruolo del docente e per migliorare l’efficacia della loro didattica. Il progetto mentore e il CIMDU (tramite il ciclo di seminari per i neoassunti) vanno, mi sembra nella direzione sopra menzionata, mentre la didattica a distanza, se lasciata sola, al di fuori di questa fase emergenziale porterebbe esattamente nella direzione opposta.

    Un caro saluto

    Nuccio (Onofrio) Scialdone

    Risposta
  • 1 Aprile, 2020 in 10:16 am
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    Caro Enrico e car* collegh*, ho letto con interesse le vostre considerazioni e mi trovo pienamente d’accordo su quella che mi sembra essere la linea di pensiero principale: le lezioni online sono il debole filo che tiene unita la comunità didattica (in realtà unita a metà, come possiamo dire tenendo conto delle osservazioni di Francesco Cappello e di Marco sull’importanza del rapporto studente-studente) in un momento di emergenza e quindi ben vengano, … ma non sono lezioni (e quindi non possono diventare la norma). Sono trasmissione di informazioni – di quelle informazioni che ciascun docente ritiene importanti perché studenti e studentesse possano superare l’esame, …ma che, lo ribadisco, non sono lezioni, cioè non sono “comunicazione”, messa in comune, di un sapere consapevole, non sono costruzione di un’intelligenza collettiva. Tu, Enrico, hai ben messo in evidenza come la «mancanza del contatto diretto con gli studenti» costituisca un grosso rischio, anzi direi un sicuro ostacolo alla lezione considerata secondo la definizione che ne ho appena dato. Nuccio Scialdone, che richiamava anche la notazione fatta da Giuseppe Silvestri ad un suo seminario sul fatto che in realtà tutto “il sapere tecnico” è già a disposizione di chiunque su Internet, sintetizzava bene, mi pare, l’idea di ciò di cui abbiamo bisogno con l’espressione «didattica maggiormente partecipativa». Da questo punto di vista, la didattica online va contestata, dici benissimo, Enrico, non semplicemente perché riduce il numero di docenti necessari ma perché va addirittura in direzione esattamente contraria a quel requisito necessario a che si realizzi una buona docenza, che è fatta, come dici ancora bene tu, di non massificazione, dunque di un numero di studenti e studentesse minore per ogni corso, … dunque di un numero maggiore di docenti! Per questo, pur apprezzando le domande di Davide Rocchesso sulle capacità tecniche del nostro Ateneo di affrontare il problema degli esami online, credo di essere in (rispettoso) disaccordo con la sua distinzione tra MOOC e Università telematica: la didattica «di qualità», per me, abbisogna di rapporti umani, di scambi di parole, di toni, di gesti (insomma di tutto ciò che Watzlawick dice essere attinente agli aspetti «analogici», cioè relazionali, della comunicazione, e non solo a quelli «digitali», ovvero contenutistici). Di più, una didattica di qualità, nonostante le, per me assurde, pretese della Scheda di trasparenza, non è un percorso lineare ma – evviva la Teoria del Caos e dei processi fondati sull’Incertezza, che abbiamo accolto nelle Scienze cosiddette Dure ma… abbiamo scacciato da quelle cosiddette Morbide, quale è anche quella che si occupa della didattica!!! – disponibile, e forse anche invitante, all’imprevisto, alle deviazioni, in un “sistema-aula” che, per parlare il linguaggio dei Biologi, dovrebbe essere considerato dotato di non solo chiusura organizzazionale ma anche di apertura termodinamica. Il (buon) percorso didattico è un processo che chiamerei di «caos controllato». Sono d’accordo infine sul fatto che le piattaforme informatiche possono essere utili, invece, per accogliere «le parti puramente “contenutistiche” dei diversi insegnamenti» (e Luigi Badalucco ci ricorda che di fatto ciò era possibile anche prima dell’attuale emergenza) ma, per dirti tutto ciò che penso, cosa sia «puramente contenutistico» non è del tutto ovvio. Personalmente, ad esempio, non metterei in questa categoria «la narrazione dei fatti storici» che anzi, a mio parere, costituisce uno di quei fattori maggiormente capaci di sollecitare domande impreviste e di creare problemi piuttosto che di offrire risposte. E una buona didattica, ritengo, ha bisogno esattamente di questo: fornire risposte e creare problemi – problemi che non sono mai soltanto tecnici. Ma questo è un discorso lungo e io ho già approfittato troppo della Tua ospitalità. Grazie ancora per le stimolanti riflessioni, Tue e di chi altri ha scritto, e un abbraccio.

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  • 2 Aprile, 2020 in 6:38 pm
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    Caro Enrico, concordo con le tue preoccupazioni e credo, a sgombrare il campo, che valga una considerazione. Ho anch’io, come tanti, la sensazione di star vivendo un’esperienza didattica (in remoto) nuova, intensa, con meno cose di un certo tipo e più cose di altro tipo. Sono certo che il corso che sto svolgendo stia formando secondo i miei auspici gli studenti che partecipano. Credo che, alla fine, avremo erogato delle diversamente eccellenti lezioni.
    E non me ne sfugge la ragione: perché non siamo tele-docenti, né tele-ricercatori; e neanche fummo tele-studenti!
    È tutto qua! Lo strumento tecnologico non è il soggetto/oggetto della lezione. Anzi, tanto più qualcuno vorrà trasformarlo di per sé in “lezione”, quanto più dovremo ribadirne l’asservimento strumentale al docente; al professore, oserei dire. Il che vuol dire che la qualità di un momento formativo organizzato in remoto, dipende dalla consapevolezza della “parte in commedia” che noi tutti siamo chiamati a svolgere. Ci sono Teams nei quali è bello entrare; ci sono aule che possono deludere.
    Questo incrocia un dibattito che affligge le aree tecnico-scientifiche in tempi di asn. Ci troviamo spesso ai concorsi candidati super-titolati, perché provenienti da CNR e simili, imbarcando i quali l’università statale compie un salto nel vuoto, che rischia di tradursi in un fallimento della nostra (prima) missione. Non esiste una abilitazione nazionale didattica (e meglio così), però, compiere un percorso di crescita dentro l’accademia significa esattamente avere l’occasione di assorbire quella consapevolezza che oggi aiuta nel dare significato alle lezioni in remoto.
    A riguardo, chiudo rilevando che siamo forse un po’ troppo in attesa di avere dal MIUR e dall’Ateneo stesso indicazioni precise circa le modalità necessarie per svolgere tutto. Forse a furia di essere governati si perde proprio la coscienza di sé! E allora mi sento di dire: saprò bene IO come fare ad insegnare e a valutare. Il tutto, POI, FORMALIZZATO secondo quanto Santa Romana Chiesa chiederà (se mai riuscirà a venirne a capo). Non credo che dobbiamo inventarci agenti dei RIS di Parma per FARCI UN GIUDIZIO. Assumiamoci la responsabilità di fare i professori e lasciamo a chi deve provarsi a mettere a norma la cosa, di preparare il vestito migliore. Peraltro, ho il sospetto che Ministri, Papi e Rettori… ci contino.

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