Everyone gets the experience. Some get the lesson

L’attuale dibattito sulla vicenda della partecipazione di un componente del CdA UNIPA, rappresentante del personale TAB, ad un concorso di categoria D mi vede chiamato direttamente in causa, sia esplicitamente dai sindacati SNALS e CISL, sia implicitamente dal direttore generale, che richiama la sentenza con cui il TAR non ha accolto il mio ricorso contro l’esclusione da un concorso di ordinario.

Spero che questa nuova vicenda induca finalmente l’amministrazione UNIPA a comprendere quanto irto e accidentato sia il percorso di chi pretende di applicare le norme sulle incompatibilità a colpi di interpretazioni estensive del tipo: “se la legge vieta il caso a, si deve logicamente ritenere vietato anche il caso b…”. E’ infatti evidente, e anche il caso sollevato dai sindacati lo mostra chiaramente, che procedendo su questa strada si sa da dove si parte, ma non dove si arriva.

Già nel caso che mi ha riguardato, la partecipazione ad un concorso di ordinario mentre ero consigliere di amministrazione, la scelta dell’Ateneo di affidarsi ad interpretazioni estensive al di là del dettato di legge ha aperto un potenziale squarcio, che ha messo in pericolo la partecipazione di tantissimi colleghi ai concorsi banditi dall’Ateneo. L’articolo di legge invocato prevede infatti il divieto di partecipare alle procedure concorsuali ex art. 18 per “coloro che abbiano un grado di parentela o di affinità […] con un professore appartenente al dipartimento […] ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell’ateneo“. L’interpretazione estensiva data dall’Ateneo:

se la legge vieta la partecipazione ai concorsi dei parenti dei consiglieri, si deve logicamente ritenere che il divieto valga anche per gli stessi consiglieri

avrebbe infatti potuto (e, per logica, dovuto…) portare con sé la corrispondente lettura:

se la legge vieta la partecipazione ai concorsi dei parenti dei professori di un dipartimento, si deve logicamente ritenere che il divieto valga anche per gli stessi professori del dipartimento”.

E’ opportuno peraltro che tutti i docenti dell’Ateneo sappiano che l’Avvocato dello Stato che difendeva l’Ateneo nel mio ricorso (lo stesso avvocato sulla base del cui parere l’Ateneo ha proceduto alla mia esclusione) ha scritto in una memoria di replica che: “L’odierno ricorrente, a sostegno della propria tesi, adduce che in molte procedure di reclutamento sarebbero risultati vincitori professori appartenenti al dipartimento che aveva effettuato la chiamata. Il punto è, però, che anche per tali soggetti vale il divieto in questione, e la circostanza che siffatto divieto non sia stato fatto valere in altre procedure non significa affatto che esso non sia previsto o non sia vigente”. L’Avvocato dello Stato, proprio nel difendere l’Ateneo, ha quindi esplicitamente ritenuto che esso abbia operato una disparità di trattamento e che, secondo la sua lettura (a mio avviso del tutto sbagliata, ma quantomeno coerente), avrebbe dovuto escludere non soltanto il sottoscritto, ma anche tutti i professori che partecipavano a concorsi banditi dal proprio dipartimento.

Credo sia evidente che se l’Ateneo avesse mantenuto una linea coerente con la propria interpretazione della norma, secondo quanto indicava l’Avvocato dello Stato (al cui parere evidentemente l’Ateneo si conforma a giorni alterni), le conseguenze sarebbero state devastanti per tutto il sistema dei concorsi e per tutti i docenti dell’Ateneo interessati a parteciparvi (come già avvenuto all’Università di Bari, dove una RTDa è stata incredibilmente esclusa da un concorso per RTDb in quanto appartenente al Dipartimento che effettuava la chiamata!!!). Mostrando, come si diceva all’inizio, che le conseguenze delle letture estensive possono portare molto più lontano di quanto magari pensasse chi le propugnava

Adesso, con il caso messo in evidenza dalla nota sindacale, l’Ateneo si trova costretto a fare un passo ulteriore, comunque in una direzione sbagliata: o permanere nella linea dell’interpretazione estensiva della norma (escludendo il dott. Di Lorenzo nonostante nessuna legge né regolamento di ateneo lo preveda), o lasciarlo partecipare, perpetrando una nuova evidente disparità di trattamento.

Credo che tutto questo dimostri che l’unica strada oggi percorribile sia mettere un punto e ripartire da zero. Ripartire, cioè, da quel principio giuridico ampiamente consolidato, confermato da numerose sentenze del Consiglio di Stato, che le norme che prevedono limiti alla partecipazione a concorsi pubblici sono “di stretta interpretazione” e non possono quindi dare luogo ad interpretazioni estensive, cosiddette “ad malam partem”, che introducano restrizioni ulteriori rispetto a quelle esplicitamente previste dalla legge. Come scritto nella sentenza del Consiglio di Stato richiamata (abbastanza a sproposito) dal DG nella sua nota di replica, le università godono di un’autonomia regolamentare riconosciuta dalla Costituzione, attraverso la quale possono “colmare” eventuali vuoti normativi (ovviamente senza andare contra legem) e definire chiaramente il sistema delle incompatibilità.

L’Ateneo dovrebbe quindi mettere mano ai propri Regolamenti ed indicare in essi esplicitamente e senza margini di dubbio chi può e chi non può partecipare ai concorsi e alle selezioni e, poi, a queste indicazioni attenersi in maniera pedissequa. Purtroppo, solo qualche mese fa, l’Ateneo ha fatto esattamente il contrario: è cioè intervenuto sulle proprie norme regolamentari per rimuovere l’incandidabilità in presenza di relazioni di coniugio e ha deliberatamente deciso di mantenere una zona grigia, non introducendo alcun riferimento al divieto di partecipazione ai concorsi, secondo loro vigente, per i consiglieri di amministrazione.

Si abbandoni quindi questa pessima prassi e si scelga invece una buona volta quella della limpida chiarezza e trasparenza. E si cominci subito, lasciando che il dott. Di Lorenzo partecipi, come è nel suo pieno diritto, al concorso (ma magari lasciando perdere gli esperimenti di mirror climbing del DG). Se si vorranno introdurre altre incompatibilità lo si scriva nei Regolamenti e poi nei Bandi e, solo da quel momento in poi, le si consideri valide.

Non posso dire che i sindacati abbiano torto nel pretendere da un’amministrazione pubblica l’univocità dei comportamenti e la totale assenza di disparità di trattamento. E’ ovvio che su questo hanno assolutamente ragione e che ogni cambio di indirizzo determina una disparità nei confronti di chi, come il sottoscritto, ha subito le conseguenze dei precedenti indirizzi.

E, però, avere sbagliato una volta non costituisce mai una buona ragione per continuare a sbagliare.

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