Incompatibilità per incarichi esterni e Corte dei Conti
Nelle ultime settimane la stampa italiana ha riportato notizia di numerose indagini effettuate dalla Guardia di Finanza a carico di docenti di diverse università italiane su mandato della Corte dei Conti. Le inchieste riguarderebbero violazioni del regime delle incompatibilità previsto dalle norme nazionali, in particolare con riferimento al regime di impegno a tempo pieno o a tempo definito, alle consulenze e alle caratteristiche di occasionalità o abitualità delle attività svolte.
E’ del tutto superfluo dire che indagini di questo tipo sono assolutamente opportune e che la comunità universitaria può essere soltanto grata a chi le porta avanti. Individuare e perseguire le violazioni della legge eventualmente commesse da una parte della comunità universitaria, per fortuna decisamente minoritaria, è importante in primo luogo per salvaguardare la correttezza e l’onorabilità della parte restante, che svolge il proprio dovere con onestà e nel pieno rispetto delle norme. In queste inchieste, peraltro, le università sono “parte lesa”, in quanto il mantenimento del regime a tempo pieno da parte di colleghi che avrebbero dovuto invece optare per quello a tempo definito determina un chiaro danno erariale nei confronti dei rispettivi Atenei, che hanno pagato loro stipendi molto superiori rispetto a quanto sarebbe stato dovuto. E’ noto, inoltre, che i compensi percepiti da dipendenti pubblici per le attività svolte al di fuori del corretto regime di autorizzazione devono essere versati all’ente di appartenenza. L’emersione e l’individuazione di tali attività consente quindi agli Atenei di acquisire somme anche significative, che potranno essere destinate agli scopi istituzionali delle nostre università.
Tutto bene, quindi, tutto molto positivo.
Qualche perplessità comincia però ad emergere quando capita di confrontarsi, come a me è accaduto in qualche occasione nei giorni scorsi, con colleghi della cui specchiata onestà si è assolutamente certi e che, però, manifestano il proprio timore di essere in qualche misura coinvolti nelle indagini in corso. E’ bene ricordare che anche questa circostanza rientra pienamente nella norma, in quanto è del tutto naturale che inchieste effettuate su larga scala possano coinvolgere persone estranee alle condotte illecite, che solo l’approfondimento delle indagini consentirà di riconoscere come tali. Fa parte cioè degli inevitabili “effetti collaterali” delle inchieste il temporaneo coinvolgimento di onesti cittadini che possano essere incorsi in qualche disattenzione che, in un primo momento, può essere confusa da chi fa le indagini con i ben più gravi comportamenti delittuosi oggetto di valutazione.
Ciò che però non è per nulla accettabile è, invece, che persone per bene e attente, che hanno seguito puntigliosamente tutte le procedure previste dalla legge e dai Regolamenti, debbano trovarsi nella condizione di non sapere più se il proprio comportamento passato sia stato del tutto lecito ovvero abbia, inconsapevolmente, configurato la violazione di qualche norma. Poiché sembra proprio questa la situazione in cui si trovano oggi molti colleghi, è opportuno approfondire l’analisi e provare a capirne qualcosa in più.
Comincio con il sottolineare che nel seguito mi avventurerò in un terreno, quello dell’interpretazione delle norme, che non mi è familiare, essendo un ingegnere e non un giurista. Ritengo, tuttavia, che ogni cittadino debba rivendicare il diritto di comprendere le leggi che regolano le proprie attività, senza doversi trasformare in un esperto di diritto amministrativo o penale e senza dovere consultare ad ogni passo un consulente giuridico. Credo che si possa anche sostenere che l’emersione di interpretazioni della legge che modificano il quadro comunemente inteso fino a quel momento vigente costituisce un’intollerabile violazione di uno dei fondamentali diritti riconosciuti (almeno) a partire dall’affermazione del concetto di “stato di diritto” e, cioè, quello della certezza del diritto.
Uno spunto interessante, e per qualche verso raggelante, sul tema qui discusso può in primo luogo venire dalla lettura della relazione della Procura Regionale della Corte dei Conti per l’Emilia Romagna (nel seguito, semplicemente indicata con “Procura”) in occasione dell’Inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2018. In questa relazione la Procura, facendo riferimento ad alcuni docenti dell’Università di Bologna, richiama il “danno erariale derivante dal mancato riversamento […] dei compensi illecitamente percepiti per attività extraistituzionale non autorizzata”. La Procura riferisce che, avendo i docenti svolto attività libero-professionale, “risulta violato il regime d’incompatibilità derivante dall’art. 60 del D.P.R. n. 3/1957 e dall’art. 11, comma 5, lett. a) del D.P.R. n. 382/1980, che, specificamente per il regime a tempo pieno, dispone che è incompatibile con lo svolgimento di qualsiasi attività professionale e di consulenza esterna e con la assunzione di qualsiasi incarico retribuito e con l’esercizio del commercio e dell’industria (…)”. Ciò che in questo passaggio appare immediatamente evidente – e, devo dire, anche abbastanza sconcertante – è che, pur facendosi riferimento ad attività di consulenza, la Procura richiama una norma (l’art. 11 comma 5 del DPR 382/1980) che proprio con riferimento a tale genere di attività viene chiaramente superata dall’art. 6 della L. 240/2010 secondo la quale l’attività di consulenza rientra tra quelle “liberamente esercitabili”.
Il tema delle attività di consulenza svolte dai docenti universitari, per come interpretato dalla Procura della Corte dei Conti emiliana, pone in generale problemi di interpretazione estremamente complessi. Le due questioni fondamentali che sorgono possono essere riassunte in questi termini:
– un’attività di consulenza che presenti i caratteri dell’abitualità rimane “liberamente esercitabile” come indicato nella L. 240/2010 ovvero viene automaticamente trascinata nel campo delle attività libero-professionali diventando, come tale, incompatibile con il regime di tempo pieno?
– quali sono le condizioni che trasformano un’attività di consulenza da “occasionale” ad “abituale”?
Con riferimento al primo interrogativo è opportuno evidenziare che, nei termini in cui il tema viene posto dalla Corte dei Conti, si determina una transizione senza soluzione di continuità dall’ambito delle attività liberamente esercitabili (che non richiedono comunicazione né autorizzazione) a quello delle attività incompatibili. La sottile e non inequivoca distinzione tra le caratteristiche di “occasionalità” o di “abitualità” della prestazione professionale, quindi, traccerebbe il discrimine tra la condizione legittima della consulenza “liberamente esercitata” e quella incompatibile e, quindi, delittuosa, dell’attività libero-professionale. Questa considerazione configura già il primo elemento di inaccettabile incertezza: se la L. 240/2010, subito dopo avere ribadito l’incompatibilità dell’opzione per il tempo pieno con l’esercizio dell’attività libero-professionale (art. 6 comma 9), definisce liberamente esercitabili (comma 10) le attività di consulenza (senza aggiungere il requisito della loro “occasionalità” o qualsivoglia altra specificazione), per quale ragione un cittadino dovrebbe essere indotto a interpretare quella norma in modo diverso da quanto chiaramente espresso? Cosa potrebbe, cioè, spingere un cittadino ad interrogarsi su presunte limitazioni del carattere di piena “libertà” di esercizio cui la legge fa riferimento?
Se anche, poi, si accettasse l’interpretazione della Procura e si rendesse quindi necessaria la distinzione tra il carattere dell’occasionalità e quello dell’abitualità delle attività di consulenza, quale criterio potrebbe essere utilizzato? Secondo la Procura il criterio discriminante sarebbe il superamento del reddito di 5.000 € annui, in virtù dell’obbligo, che nasce in tale condizione, di iscrizione alla Gestione separata dell’INPS (art. 2, c. 26, L. 335/1995). La lettura della legge non sembra tuttavia consentire tale interpretazione. La Gestione separata viene infatti istituita nel 1995 per assicurare l’estensione “dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti” per “i soggetti che esercitano per professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo”. Solo nel 2003 (art. 44, c. 2, DL 269/2003) viene aggiunto l’obbligo di iscrizione alla Gestione per “i soggetti esercenti attività di lavoro autonomo occasionale […] solo qualora il reddito annuo derivante da dette attività sia superiore ad euro 5.000”. Le due norme, quindi, determinano l’obbligo di iscrizione alla gestione separata per due categorie di lavoratori: 1) per chi svolge attività di lavoro autonomo “abituale” senza essere iscritto ad altra cassa previdenziale e 2) per chi svolge lavoro autonomo “occasionale” superando il limite dei 5.000 € annui. Quest’ultimo limite di reddito viene quindi individuato esclusivamente come soglia per l’attivazione dell’obbligo di iscrizione alla Gestione separata per chi svolge attività “occasionale”, senza in alcun modo fare venire meno tale carattere di occasionalità.
La Procura, insistendo con salti logici degni della migliore Tania Cragnotto, argomenta poi che il limite dei 5.000 € perché si configuri un’attività abituale possa essere anche desunto dall’art. 61 della cd L. Biagi (articolo peraltro abrogato nel 2015), in cui si diceva che “Dalla disposizione di cui al comma 1 sono escluse le prestazioni occasionali, intendendosi per tali i rapporti di durata complessiva non superiore a trenta giorni nel corso dell’anno solare con lo stesso committente, salvo che il compenso complessivamente percepito nel medesimo anno solare sia superiore a 5 mila euro, nel qual caso trovano applicazione le disposizioni contenute nel presente capo”. Quell’articolo, quindi, definiva in maniera inequivoca le prestazioni occasionali con riferimento alla durata complessiva (non più di 30 giorni nell’anno con lo stesso committente), limitandosi ad escludere dall’applicazione della “disposizione di cui al comma 1” quelle prestazioni (che la norma continuava però a definire occasionali) che dessero luogo ad un compenso annuo superiore a 5.000 €. Ancora una volta, quindi, la Procura considera evidenti e logiche considerazioni che non sembrano affatto prevedere quella chiarezza da essa invocata.
Per completare ancora la complessità del quadro è opportuno dare uno sguardo alle prime sentenze della Corte dei Conti emiliana derivanti dalla richiamata indagine (Sentenze n. 150, 209, 210, 211 e 214 del 2017). In queste sentenze in primo luogo non si fa alcun riferimento al superamento della soglia di 5.000 € utilizzata dalla Procura per distinguere il carattere dell’abitualità della prestazione occasionalità e, anzi, in almeno un caso si condanna alla refusione del danno un collega anche per gli anni in cui l’attività di consulenza (svolta come consulente tecnico di ufficio, sembra rilevarsi) ha dato luogo a compensi inferiori a 5.000 €. Di fatto, quindi, le sentenze vanno perfino oltre il quadro interpretativo della Procura e lasciano del tutto opaco il criterio di distinzione tra attività consentite ed attività incompatibili con il regime di tempo pieno.
In diversi casi, peraltro, le sentenze nemmeno richiamano l’art. 6 comma 10 della L. 240/2010 in cui le attività di consulenza vengono definite “liberamente esercitabili” e condannano i docenti alla refusione del danno per l’esercizio di attività libero-professionale non consentita. In altri casi, invece, tale comma viene richiamato argomentando che la norma consentirebbe solo lo svolgimento di attività di “consulenza scientifica”. Tale deduzione viene fondata sulla considerazione che il comma richiamato definisce “liberamente esercitabili” le attività di “collaborazione scientifica e di consulenza” e, quindi, secondo il giudice, l’aggettivo “scientifica” andrebbe automaticamente applicato anche al termine “consulenza”. Come giustamente discute in questo interessante articolo l’ex senatore Valditara, allora relatore della L. 240/2010, se il legislatore avesse voluto limitare il libero esercizio delle consulenze a quelle scientifiche non avrebbe parlato di “attività di collaborazione scientifica e di consulenza”, ma avrebbe scritto piuttosto “attività di collaborazione e di consulenza scientifica”. L’interpretazione della Corte dei Conti emiliana, laddove venisse condivisa anche da altri tribunali, porterebbe quindi alla condanna – ritengo assolutamente ingiusta – delle migliaia di professori e ricercatori che, in tutta Italia, hanno sempre svolto con la massima serenità, ad esempio, i compiti di CTU su incarico dei Tribunali.
Il quadro che emerge è quindi quanto di più lontano si possa immaginare da quei principi di chiarezza della legge e di certezza del diritto che un cittadino avrebbe il sacrosanto diritto di invocare. Un docente universitario ha infatti il diritto di pretendere che le norme che vengono applicate siano chiare, comprensibili e non soggette a diverse ed incerte interpretazioni. Le sentenze richiamate arrivano perfino a considerare una circostanza irrilevante l’avvenuta acquisizione dell’autorizzazione da parte dell’amministrazione di appartenenza (definita “inutiliter data”) prima dell’avvio delle attività contestate. Un docente, pertanto, non soltanto non sarebbe autorizzato a limitarsi alla lettura del chiarissimo disposto dell’art. 6 comma 10 della L. 240/2010 che definisce “liberamente esercitabili” le attività di consulenza, ma non può nemmeno riporre la propria fiducia nell’ottenimento, da parte degli uffici amministrativi della propria istituzione di appartenenza, di regolare autorizzazione allo svolgimento di quelle attività di consulenza.
Credo che il quadro richiamato configuri una condizione del tutto insostenibile, che tutti i docenti universitari e, in loro rappresentanza, il CUN e la CRUI dovrebbero porre con forza al legislatore affinché si ponga tempestivo rimedio alle incertezze interpretative che oggi espongono i docenti ad inaccettabili rischi. E l’intero corpo accademico, a partire dai Rettori delle università italiane, dovrebbe rispondere con decisione alla vulgata giornalistica che, ancora una volta, tende a criminalizzare il sistema universitario nazionale.
So bene che la maggior parte delle discipline universitarie non sono in alcun modo interessate da queste vicende. Io stesso, pur essendo un ingegnere civile, non ho svolto da più di 10 anni alcuna attività di consulenza che possa rientrare nell’ambito di attenzione della Corte dei Conti. E, tuttavia, se ciascuno di noi continuerà ad occuparsi solo delle vicende che lo riguardano direttamente, l’imbarbarimento dell’attuale situazione non potrà che estendersi senza controllo ad ogni altro aspetto della nostra attività di docenti universitari.
I ragionamenti del collega Napoli sono tempestivi, logici, rappresentativi delle situazioni reali, e importanti sotto tutti gli aspetti. Credo che tutti vorremmo che gli Uffici Legali delle Università precedessero i ricercatori, e discorsi come questo li sviluppassero loro; ma intanto ringraziamo Napoli per l’articolo che ha scritto.
Vorrei ora fare tre annotazioni isolate fra loro.
Prima: le Norme risultano contraddittorie perchè sembrano basate su questo postulato: “la Consulenza è per sua natura breve, e quando è conclusa, è conclusa; il Progetto invece per sua natura vincola il Dipendete che vi collabora (sia egli avvocato, naturalista, geologo, sociologo, agronomo, ingegnere o architetto) per una durata di tempo imprevedibile, con strascichi infiniti”.
Per questo postulato noi viviamo il paradosso di potere essere autorizzati (o addirittura di non dover chiedere autorizzazione) per prestare più consulenze in 1 anno; ma non poter essere autorizzati a collaborare a 1 progetto in 1 anno.
Seconda: se la nostra occasionale prestazione di Consulenze è una cosa sulla quale l’Ateneo ha il diritto / dovere di vigilare (e io credo che lo abbia), le Consulenze scientifiche dovrebbero essere incluse almeno alla pari. Infatti, come giustamente si teme per l’insegnamento in Istituzioni private, una nostra collaborazione scientifica con soggetti esterni potrebbe far concorrenza all’Università nella quale siamo impiegati.
Negli Stati Uniti questi contenziosi pubblico – privato sono continui.
Terza: a proposito in particolare di Consulenze Tecniche di Ufficio per l’Autorità Giudiziaria, una collega di UniPa – all’epoca Capo dell’Ufficio competente – mi spiegò che vige un principio generale, quello della “collaborazione fra rami della P.A.” Non so essere più preciso, ma posso testimoniare che in Sicilia Pubblici Ministeri e Giudici SI ASPETTANO che i ricercatori prestino la loro opera di CTU, quando richiesti; e si aspettano il meglio. Quando decliniamo l’invito, ci vuole del bello e del buono per fare accettare che non è per coinvolgimenti pregressi, ma semplicemente perchè p.es. non siamo competenti sull’argomento.