Come migliorare?
Per chiunque svolga ruoli di coordinamento, governo, indirizzo politico è un dovere interrogarsi su quali strumenti possano essere impiegati per migliorare la qualità delle attività dell’istituzione cui si appartiene o dell’organo entro cui si opera. Nel caso delle università, è abbastanza ovvio che il nodo centrale siano le politiche volte a rendere massimo l’impegno del personale docente e tecnico-amministrativo per il raggiungimento degli scopi istituzionali.
La grande libertà che, grazie in primo luogo ai principi costituzionali, le norme nazionali continuano ad attribuire ai docenti universitari esclude la possibilità di imporre loro specifici comportamenti e scelte, a parte ovviamente i livelli minimi correlati alla “quantità” di ore di didattica da svolgere, alla partecipazione agli organi accademici e a pochi altri doveri istituzionali. Nessun miglioramento o rafforzamento dell’impegno può quindi fondarsi su leggi, Regolamenti o obblighi di qualsivoglia natura.
Una visione più aperta e consapevole è invece quella che mira ad ottenere la massima collaborazione e l’impegno convergente di tutti i docenti e di tutto il personale attraverso il ricorso ad un sistema di “incentivi” legati al raggiungimento di obiettivi ben identificati. Si tratta di una strada che tutti gli Atenei da tempo cercano di percorrere, ma probabilmente il successo di questi interventi rimane molto inferiore alle aspettative.
Anche il CdA di cui sono componente eletto ha costantemente cercato in questi mesi di dare priorità, in ogni scelta, all’impiego di criteri capaci di stimolare, appunto incentivandoli, i comportamenti e le scelte ritenuti più utili all’istituzione. Si è cercato così di ricorrere a criteri per l’assegnazione ai Dipartimenti delle risorse per la programmazione che premiassero l’uso ottimale della docenza, l’incremento degli studenti iscritti, le pubblicazioni su sedi editoriali capaci di rendere possibili buoni risultati nella VQR. Allo stesso modo, nell’assegnazione delle risorse per il Fondo di Finanziamento della Ricerca di Ateneo (FFR) si è cercato di favorire la collaborazione virtuosa tra i ricercatori dell’Ateneo e di premiare i miglioramenti nel livello della ricerca. E, ancora, si sono trovate risorse, per la prima volta da molti anni, per la retribuzione aggiuntiva dei ricercatori universitari che tengono insegnamenti (peraltro in semplice ossequio a quanto disposto dalla L. 240/10 e, finora, semplicemente ignorato).
Pur continuando ad essere convinto della complessiva correttezza di questi interventi, ritengo che la loro reale efficacia, soprattutto ove non siano accompagnati da altre iniziative e da un contesto generale favorevole, sarà molto limitata. E questo per molteplici ragioni, di cui proverò a tratteggiare alcune delle principali.
In primo luogo, la stessa forma mentis del docente universitario e la consapevolezza di svolgere un ruolo di elevato spessore culturale lo rendono poco incline a mettere in atto determinati comportamenti soltanto perché qualcun altro ha predisposto qualche “premio” (personale o al Dipartimento di appartenenza) per quelle azioni. Questo atteggiamento di fondo assume una rilevanza ed un’incidenza ancora maggiore quando, a causa della limitatezza delle risorse disponibili, quei premi ed incentivi sono così esigui da trasformarsi in piccolissimi oboli, la cui capacità di orientare scelte e comportamenti diventa pressocché trascurabile (quando non, perfino, controproducente).
Volendo spostarsi su considerazioni più centrate sul merito degli incentivi, sorge poi con immediatezza l’ulteriore problema legato alla misurabilità dei risultati conseguiti. L’attribuzione degli incentivi, infatti, richiede la definizione di specifici obiettivi, il cui raggiungimento (ed il cui grado di raggiungimento) consente di guadagnarne il diritto. Gli incentivi potranno quindi essere attribuiti in funzione del numero di ore di insegnamento svolte, del numero di esami verbalizzati, del numero di articoli pubblicati o delle citazioni da essi ricevute, e, ovviamente, di mille altri possibili “indicatori”. Il punto su cui questa impostazione risulta debole è però l’assoluta incommensurabilità della “qualità” reale della didattica e della ricerca rispetto a tutti questi indicatori. Certamente è infatti possibile utilizzare, per l’attribuzione degli incentivi, i medesimi indicatori di carattere quantitativo impiegati, ad esempio, dal MIUR per l’attribuzione del FFO e, in questo modo, provare ad orientare i comportamenti dei singoli e delle strutture in modo da aumentare il finanziamento. Risulta però evidente l’asfitticità di tale prospettiva (ove non accompagnata da altri interventi) se solo si considera, ad esempio, quanto lontana sia la reale qualità dell’attività di ricerca dai risultati VQR (che nei settori bibliometrici possono misurare Impact Factor e citazioni, ma non certamente il carattere innovativo ed il rigore metodologico di un contributo scientifico e che nei settori non bibliometrici sono esposti alla più totale aleatorietà) oppure quanto poco possa dire della capacità di guidare i giovani allievi dottorandi il famigerato parametro R+X di un Collegio di Dottorato. Al massimo, quindi, l’utilizzo di incentivi volti a migliorare questi indicatori potrebbe costituire un fattore di crescita per le entrate finanziarie, ma poco o nulla può incidere sulla vera capacità di proporre un’offerta didattica di elevata qualità o di raggiungere significativi risultati nella ricerca, a meno che, ovviamente, l’incremento delle entrate non si traduca in investimenti capaci di innescare effetti positivi sui processi reali. Ma, allora, si torna alla necessità di sapere individuare quali siano davvero gli interventi e gli investimenti efficaci.
Un ulteriore elemento di riflessione credo possa essere fornito da alcuni noti esperimenti di scienze sociali che mostrano con una certa evidenza – e, peraltro, per ragioni facilmente comprensibili -, che la logica degli incentivi risulta tanto più efficace quanto più “semplice” e meccanico sia il risultato da raggiungere: maggiore la motivazione, più alto l’impegno, migliore il risultato raggiunto. Tutto semplice, lineare, deterministico. D’altra parte, però, quando l’obiettivo da raggiungere richiede il coinvolgimento di doti di creatività e inventiva, come naturalmente è la norma per le attività in cui sono primariamente impegnati i docenti universitari, gli incentivi si dimostrano poco efficaci e perfino capaci di peggiorare i risultati e le performance (per un intervento di carattere divulgativo sull’argomento, suggerisco l’interessante e gradevole link qui riportato ad un video del noto divulgatore e speechwriter Dan Pink). Questo effetto indesiderato sembra essere tanto più reale quanto più elevati diventino gli incentivi, in quanto il concentrarsi sul raggiungimento degli obiettivi che danno diritto all’acquisizione del premio finisce con il distogliere e allontanare da quel contesto di rilassata concentrazione da cui soltanto possono emergere le buone idee o, in ambito didattico, la capacità di trasmettere agli studenti le proprie competenze in modo realmente formativo.
Queste riflessioni non credo inducano ad escludere l’utilità tout court del ricorso agli incentivi, ma piuttosto a considerarli soltanto un tassello, e probabilmente nemmeno il più importante, di una politica complessiva che prenda le mosse da altro genere di valutazioni. L’elemento fondante credo debba essere l’analisi delle motivazioni che guidano il nostro agire dentro una struttura universitaria. Senza volere eccedere in idealismo, rimango fermamente convinto che le molle principali che guidano la nostra attività siano il piacere di svolgere una professione creativa e gratificante, il senso di appartenenza all’istituzione, il senso di responsabilità nei confronti degli studenti e, per chi opera in territori svantaggiati come il nostro, la coscienza di rappresentare un insostituibile fattore di sviluppo economico, sociale e culturale. Non intendo certamente trascurare la naturale propensione di ciascun essere umano a raggiungere obiettivi legati alla carriera personale o alle gratificazioni economiche, ma penso che queste spinte operino nel nostro lavoro solo in certi ambiti e non comportino necessariamente un miglioramento dell’attività individuale. Esse possono infatti indurre, ad esempio, ad aumentare il numero di pubblicazioni o l’acquisizione di commesse conto terzi (risultati importanti e necessari all’istituzione), ma non incidono sulla qualità dell’impegno didattico, sulla propensione ad avviare nuove e innovative linee di ricerca, e su numerosi altri importanti aspetti dell’attività di un docente universitario.
Se si accetta questa impostazione concettuale, gli interventi più efficaci per una strategia di reale crescita della qualità rimangono allora quelli che riescono ad incidere sulle motivazioni sopra richiamate e, cioè, la presenza e la socializzazione di una visione politico-strategica che guidi le singole azioni, la più ampia diffusione della discussione e del confronto a tutto campo sugli obiettivi da raggiungere e sulle relative azioni da sviluppare, la condivisione delle scelte, la massima trasparenza di ogni passaggio dei processi decisionali, la valorizzazione dell’impegno di ciascuno, l’impegno evidente per la rimozione di ogni ostacolo – a partire da quelli burocratici e regolamentari – al fluido dispiegarsi delle attività istituzionali.
Purtroppo gli assetti organizzativi attuali del sistema universitario ed il diffuso disincanto che allontana dall’impegno politico e associativo non favoriscono tali interventi, lasciando ciascun componente della comunità universitaria concentrato sul proprio lavoro individuale e sulla faticosa personale costruzione delle proprie motivazioni.
Credo sia un tema da porre all’ordine del giorno. Da una parte favorendo la creazione di spazi di incontro e confronto, come erano in passato tanti Consigli di Facoltà e come potrebbero essere oggi periodiche Conferenze di Ateneo o anche di Scuola sui temi più rilevanti. E, dall’altra, impegnandosi per ricostituire e rilanciare forme di soggettività organizzata, “dal basso”, capaci di stimolare il confronto e la circolazione delle idee.
Concordo. Credo anche che l’ateneo debba porsi il problema di stimolare/aiutare coloro che producono poco o che ottengono scarsi risultati nella didattica. Occorrerebbe cercare una risposta al perchè avviene questo e questa risposta non può essere sempre è soltanto colpevolizzante. Talvolta, e forse spesso, le motivazioni sono altre e devono essere analizzate perchè probabilmente è possibile proporre qualche rimedio specifico o generale.
La domanda è: “Chi vuole migliorare”?
Carissimo Enrico,
grazie sempre per i tuoi spunti di riflessione, che spero vengano accolti non solo da quelli che hanno la voglia e l’entusiasmo di mettersi in gioco sempre e provare a migliorare ma ancora di più da quelli che questa voglia non devono far morire e che sono nelle posizioni per farlo. Se uccidiamo l’entusiamo e la voglia di crescere in Italia, la barca affonda!