Assegnazione FFR e Risultati VQR – Due mondi separati?

La mia “ipotesi di lavoro” per la distribuzione del FFR ha suscitato un ricco dibattito, attraverso commenti pubblici sul blog e comunicazioni personali, di cui sono molto grato ai colleghi che hanno speso un po’ del loro tempo per valutare la proposta e formulare le proprie osservazioni. I commenti sottolineano nella maggior parte dei casi l’opportunità che, data la limitata entità delle somme in gioco, queste vengano assegnate in maniera uniforme tra i colleghi, senza introdurre più o meno complesse metodologie di distribuzione “meritocratica”. Altri commenti, più frequenti nelle comunicazioni personali, vanno nella direzione esattamente opposta, suggerendo, proprio per la limitatezza degli importi, che i fondi vengano concentrati sui gruppi di ricerca che dimostrino di saperne fare un migliore uso, magari prevedendo la proposta di un progetto di ricerca inclusivo nei confronti di colleghi scientificamente meno “produttivi”.

Pur riconoscendo la fondatezza dei due punti di vista, ritengo che in essi sia dato troppo poco peso alla necessità che l’Ateneo faccia il possibile per migliorare i risultati VQR, su cui vorrei spendere qualche considerazione.

Non ho difficoltà a dire nel modo più esplicito che considero la VQR dell’ANVUR uno dei peggiori metodi di valutazione che si potessero immaginare, viziato da una deriva bibliometrica da stregoni, dall’assenza di qualsiasi contrappeso ai conflitti di interesse dei valutatori e dalla totale mancanza di trasparenza sulle procedure e sulla gestione dei risultati. Ancora più inaccettabile è poi il suo utilizzo come strumento di distribuzione delle risorse, tramite il quale nel giro di pochi anni si sono spostati centinaia di milioni di euro dalle università del centro-sud a quelle del nord.

Considero quindi opportuno e necessario ogni intervento politico capace di contrastarne l’applicazione e conservo memoria della gravissima responsabilità che si è assunta la CRUI nel suo complesso nell’opporsi alla protesta NO-VQR e nel prestarsi poi alla farsa della “primavera delle università. Il singolo rettore in quell’occasione poteva fare poco, ma l’associazione CRUI aveva tutti gli strumenti necessari per sostenere la protesta senza danneggiare gli atenei e ha scelto invece di scrivere una delle pagine peggiori della sua (purtroppo poco onorevole, a partire dal sostegno all’approvazione della L. 240/10) storia.

L’avversione alla VQR e al suo retroterra culturale non può però condurre, fin quando essa verrà utilizzata per distribuire le risorse tra gli atenei, ad ignorarne le regole e a tralasciare le azioni che, senza danneggiare ulteriormente il sistema universitario, possano consentire un incremento dei finanziamenti dei nostri atenei.

Il primo passo è allora capire quali condizioni siano realmente favorite da questo metodo di valutazione e provare a mettersi nelle migliori condizioni per difendersi dalla sua applicazione. Contrariamente a quanto potrebbe apparire, la VQR non premia la presenza di livelli di eccellenza, quanto piuttosto la diffusione di un livello medio sufficientemente elevato. Un docente iper-produttivo, capace di pubblicare ogni anno decine di articoli di livello “eccellente” (secondo la cervellotica classificazione ANVUR) contribuisce al finanziamento del proprio ateneo esattamente come un onesto ricercatore che nel quadriennio riesce con difficoltà a mettere insieme una coppia di lavori che potranno essere considerati “eccellenti”. Perché la VQR richiede ad un docente “solo” due lavori nel quadriennio. E se anche questi ne avesse pubblicati venti o duecento sarebbe la stessa cosa.

Se un ateneo vuole migliorare i propri risultati deve allora puntare prima di tutto ad innalzare il livello medio e cioè, in particolare, le valutazioni dei gruppi le cui pubblicazioni sono state considerate di livello “limitato” (0 punti), “sufficiente” (0,1 punti) o “discreto” (0,4 punti), ovviamente senza dimenticare di riconoscere e valorizzare l’impegno di chi ha ricevuto le valutazioni più positive.

Nell’ultima VQR l’Università di Palermo ha presentato 2.834 pubblicazioni, delle quali ben 627 hanno ricevuto valutazioni bassissime (0 o 0,1 punti). A queste si aggiungono 134 pubblicazioni che non sono state presentate, in piccola parte per la protesta NO-VQR e negli altri casi perché non disponibili per l’inattività di alcuni colleghi. 700 pubblicazioni hanno poi ricevuto una valutazione “discreta” e le restanti 1.507 valutazioni “buone” o “eccellenti”.

Pur non attribuendo molto valore ai giudizi sopra richiamati, non si può trascurare la circostanza che l’Ateneo riceverà all’incirca, per quattro o cinque anni di fila:

  • 16.500 €/anno per ogni prodotto valutato “eccellente”;
  • 11.500 €/anno per ogni prodotto valutato “buono”;
  • 6.500 €/anno per ogni prodotto valutato “discreto”;
  • 1.650 €/anno per ogni prodotto valutato “sufficiente”;
  • 0 € per ogni prodotto valutato “limitato” o “mancante”.

Questi importi vanno poi almeno triplicati nel caso di docenti che nel quadriennio hanno avuto progressioni di carriera o sono stati reclutati, per i quali viene calcolato sulla VQR un ulteriore parametro (l’IRAS2) che ha portato nel 2017 6.5 MLN € all’Ateneo.

Un semplice e rapido calcolo permette di verificare che se UNIPA, ad esempio, riuscisse a fare transitare nel livello immediatamente superiore soltanto il 10% delle pubblicazioni, il finanziamento annuale crescerebbe di oltre 1 MLN €. Oppure, se il 50% dei prodotti “sufficienti”, “limitati” o “mancanti” diventassero “discreti”, il finanziamento annuale dell’Ateneo risulterebbe superiore di 2 MLN €. E si tratta di stime per difetto, in cui non si considera l’effetto del parametro IRAS2.

Per non limitarci a parlare di fredde cifre, può essere utile evidenziare che 1.5 MLN € in più significherebbero 100 promozioni l’anno (in più) di ricercatori e associati. Oppure la chiamata di 30 RTD per anno in più rispetto ad oggi. O, ancora, il raddoppio delle cifre di cui stiamo parlando per il FFR.

Queste analisi, ritengo, inducono a orientarsi su metodi di distribuzione che favoriscano sia pur limitati miglioramenti dei risultati VQR. Assegnare le risorse ai gruppi più forti non migliorerà la VQR, come non lo farà la distribuzione di risorse “a prescindere”, senza chiedere alcuno sforzo di miglioramento dei risultati delle proprie valutazioni.

Sono perfettamente consapevole che 1.000 €/anno non cambiano la capacità di ricerca di nessuno e quindi, di per sé, non miglioreranno i risultati VQR. Penso che però possano costituire un piccolo e limitato incentivo a cercare di pubblicare le proprie ricerche su riviste che godano di una migliore classificazione oppure ad includere nei propri gruppi di ricerca i colleghi che hanno le maggiori difficoltà. Sono obiettivi alla portata di (quasi) tutti e che non snaturano l’identità culturale dell’Ateneo né costituiscono un cedimento alla mentalità bibliometrica con cui l’ANVUR sta avvelenando i pozzi della ricerca italiana.

Molti colleghi non considereranno queste piccole somme un incentivo sufficiente a mutare le proprie abitudini, in alcuni casi le tematiche di ricerca non favoriranno l’integrazione di colleghi con diverso background scientifico, in altri casi le proposte di collaborazione verranno rifiutate con sdegno dai ricercatori poco produttivi ma gelosi della propria autonomia. So tutto questo, certo. Però credo anche che ci sarebbero molti colleghi che, apprezzando lo sforzo dell’Ateneo nell’impegnare somme comunque importanti per il nostro difficile bilancio e consapevoli dell’interesse dell’ateneo al miglioramento dei risultati VQR, qualche sforzo in più lo farebbero.

Il mio obiettivo sarebbe riuscire a distribuire le somme a tutti, in maniera uniforme, ma conseguendo almeno qualche piccolo miglioramento medio nelle valutazioni.

Non sono per nulla affezionato a quella che ho proposto come semplice ipotesi di lavoro, ma non me la sento di rinunciare ad usare questa opportunità come incentivo per fare almeno un passo nella direzione di cui l’Ateneo ha bisogno.

Un pensiero riguardo “Assegnazione FFR e Risultati VQR – Due mondi separati?

  • 13 Maggio, 2018 in 4:42 pm
    Permalink

    Sono perfettamente d’accordo, e sono sicuro che col piccolo investimento del FFR assicurato a ogni ricercatore, l’Ateneo guadagnerebbe sia nel “miglioramento medio” che in quello “di eccellenza”.
    Infatti disporre p.es. di 1.200 euro all’anno ci permette di fare molte cose buone.
    Possiamo comprare dei materiali di consumo, che per esempio nei pur milionari Progetti del POR “Ricerca e Sviluppo” 2007-13 non erano ammessi.
    Possiamo verificare un’idea scientifica, e perfino arrivare a dei risultati a scala di laboratorio pubblicabili.
    Possiamo ottenere l’adesione a un nostro programma di ricerca di un Collega che è bravissimo in quella certa tecnica che serve, ma ha l’apparecchio di analisi fermo.
    Possiamo andare personalmente a un Seminario dove farci conoscere da Colleghi stranieri ai quali proprio in questo momento servirebbe allargare un loro partenariato a una nazione in più, a un gruppo in più.
    E, se la nostra ricerca “gira” (sia pure al minimo), possiamo assegnare delle Tesi sperimentali. Perfino degli “elaborati brevi”, se circoscritti con intelligenza. E così migliorare la nostra credibilità di prof e l’attrattività dei nostri Corsi di Laurea.
    Metaforicamente, avere un FFR anche piccolo ti serve a comprare lo zaino e un biglietto aperto, per il momento in cui il treno che aspetti si fermerà alla tua stazione e ti darà solo pochi secondi per salire.
    Meno metaforicamente: negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, cioè proprio nei Paesi dove sono nati il culto degli Indici e la religione dei Grandi Progetti, un gruppo di ricercatori qualche anno fa ha dimostrato – con le cifre – che fondi di ricerca dell’ordine di qualche migliaio di dollari o sterline pro capite all’anno producono non solo più pubblicazioni rispetto alle risorse; ma anche pubblicazioni più originali; rispetto ai Progetti da 1, 2, 4 milioni e più.
    Naturale, vorrei dire; perfino facile da prevedere…

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