ASN in Diritto Tributario: i “guai accattati”


La vicenda dell’Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN) del Diritto Tributario riporta ancora una volta l’Università italiana agli onori della cronaca per problemi legati alle procedure concorsuali. E certamente non se ne sentiva affatto il bisogno.

Premesso che nessuno conosce quali elementi siano davvero nelle mani degli inquirenti e quanto corrette siano le ricostruzioni giornalistiche che abbiamo letto, e premesso anche che solo dopo eventuali condanne definitive si potranno dare giudizi di colpevolezza, tutta la vicenda sembra dovere essere rubricata sotto la voce dell’assoluta insensatezza.

Il sistema dei concorsi universitari italiani è infatti notoriamente afflitto da numerosi problemi, sostanzialmente riconducibili all’irrisolto legame tra cooptazione (che pure Cantone nella sua recente intervista su Repubblica considera accettabile) e necessaria equidistanza delle commissioni dai candidati, requisito essenziale di qualsiasi concorso pubblico. Oggi le commissioni di concorso (ad esclusione di quelle ASN) sono scelte dagli atenei che bandiscono la “procedura di valutazione comparativa” e sono quindi naturalmente indotte a tenere conto, nelle proprie attività, dei desiderata di quegli stessi atenei. Escludendo le inaccettabili distorsioni che fondano tali attese su rapporti di parentela o su illecite forme di scambio (al vertice delle quali si pongono probabilmente, per gravità, i rapporti professionali extra-universitari), è assolutamente comprensibile che un dipartimento possa auspicare che un concorso sia vinto dal candidato i cui interessi scientifici e le cui competenze si integrino più compiutamente con quelle del gruppo di ricerca esistente nell’ateneo, ovvero da un soggetto già interno a quel gruppo di ricerca (perché, magari, è ritenuto utile che quel gruppo si rafforzi grazie alla presenza di un nuovo professore ordinario, ma non vi sono invece esigenze di aumentarne la numerosità, come accadrebbe con la vittoria di un candidato “esterno”). Le commissioni di concorso si trovano quindi contemporaneamente obbligate a scegliere il candidato più meritevole (anche ove le sue competenze fossero mille miglia lontane da quelle dei gruppi di ricerca già operanti nella futura sede di lavoro del vincitore ovvero quella sede non abbia bisogno dell’ingresso di nuovi docenti), ma spinte a tenere in considerazione anche esigenze di natura diversa, che nei casi più virtuosi chiamano in causa l’oggettivo interesse didattico e scientifico di un’istituzione.

Le norme concorsuali finiscono così, quindi, con il diventare intrinsecamente criminogene e con il mettere spesso i commissari davanti a scelte comunque sbagliate sotto qualche punto di vista.

Sarebbe quindi auspicabile che il dott. Cantone, che dichiara di essere impegnato dal febbraio scorso, con il ministro Fedeli, a studiare possibili modifiche al sistema dei concorsi, si concentrasse su proposte che prevedano la netta separazione tra le procedure di reclutamento e quelle di progressione di carriera. In ogni caso, nessuna soluzione al problema potrà essere trovata fino a quando non si scardinerà il sistema gerarchico (“baronale”, si diceva in passato) che fa dipendere dall’esito dei concorsi il potere dei capi-scuola. L’unica soluzione sarebbe quindi, come tanti da molto tempo sostengono, un unico livello di professore universitario, le cui progressioni economiche siano legate all’esito di verifiche periodiche NON comparative dell’attività svolta, effettuate da commissioni nazionali.

Detto tutto questo, va sottolineato che il caso in questione esula completamente dalle problematiche prima discusse, in quanto riguarda una procedura di abilitazione dalla quale, notoriamente, è escluso qualunque carattere comparativo. Le commissioni si trovano, quindi, nella più favorevole delle condizioni, potendo giudicare i singoli candidati senza avere alcuna ragione per negare il riconoscimento di un’abilitazione, ove questa sia meritata. Ogni candidato, a termine di legge, dovrebbe essere infatti giudicato semplicemente sulla base del proprio curriculum e della propria produzione scientifica, senza che l’esito della singola valutazione possa essere in qualche modo influenzato dal numero o dalla distribuzione geografica delle abilitazioni assegnate. Al contrario, quello che sembra emergere dalle ricostruzioni giornalistiche (ribadisco, tutte da dimostrare e da verificare da parte delle competenti autorità giudiziarie) è l’esistenza di un sistema di accordi nazionali, di fatto basato sulla limitazione del numero di abilitazioni concedibili e sulla definizione di un quadro “geopolitico” che ne vincolava la distribuzione sul territorio nazionale.

Si tratta di un malvezzo (eufemismo per dire “ingiustificabile abuso di legge”) in cui, purtroppo, numerose commissioni di abilitazione, soprattutto nelle prime due tornate (cui peraltro si riferiscono i fatti oggetto di indagine), sono incorse. Definire un limite numerico o una percentuale alle abilitazioni riconoscibili trasforma di fatto l’ASN in una valutazione comparativa, snaturandone completamente ed illegalmente il senso.

Le illecite forzature che sembrano emergere dalle ricostruzioni giornalistiche, e che potrebbero, se dimostrate, segnare per sempre la carriera di un alto numero di colleghi (alcuni dei quali di elevatissimo prestigio) rientrano quindi pienamente nella categoria che in Sicilia chiamiamo dei “guai accattati” (il secondo termine essendo facilmente riconducibile, per i non siculofoni, al latino ad + captare). Alcuni membri della commissione, rinunciando alla lineare e onesta attività cui sarebbero stati chiamati, avrebbero cioè definito o accettato una regola (non prevista e non legittima), la cui applicazione costringeva poi ad attivare un sistema di scambi, pressioni, scontri oggi giustamente oggetto delle attenzioni dell’autorità giudiziaria.

E perché tutto questo? Forse perché per una Scuola non è tanto importante ottenere le abilitazioni per i propri allievi che la meritino quanto ottenerne in numero superiore ad un’altra? Perché limitarsi a riconoscere il merito dei candidati avrebbe tolto ai commissari (e alle associazioni o ai singoli professori in grado di esercitare pressioni su di loro) un’occasione di esercizio del proprio potere?

Di fronte a queste domande e alla vicenda complessiva emersa possiamo certamente dire che si tratta di distorsioni alle quali il grosso della comunità accademica italiana è del tutto estranea. Ma possiamo davvero affermarlo con serenità? Non è il caso di chiedersi, con la massima onestà intellettuale, quanti concorsi universitari potrebbero reggere, indenni, al vaglio di un sistema di intercettazioni telefoniche e ambientali? Senza arrivare al sistema organizzato che il caso dell’ASN in Diritto Tributario sembra evidenziare, non va riconosciuta, in una parte non trascurabile della comunità accademica, una certa tendenza a lasciare spazio, nelle procedure concorsuali, a logiche di scambio e accordo che, alle valutazioni basate sul merito dei candidati, associano elementi e considerazioni che da quelle dovrebbero restare estranee?

Gli Organi accademici dell’Università di Firenze hanno deliberato la costituzione di parte civile di quell’Ateneo nei confronti dei docenti coinvolti nell’indagine, ove questi fossero rinviati a giudizio. Si tratta certamente di un atto significativo, che intende rivendicare l’estraneità del corpo sano dell’Accademia ai reati contestati a quei colleghi. Ci sono ottime ragioni per una scelta del genere, dato che vicende come questa creano un enorme danno di immagine all’intera categoria dei professori universitari.

E però, siamo proprio certi che si possa così tranquillamente scagliarsi contro quei “peccatori”?

Che il “corpo sano” dell’università abbia davvero titolo, tutto, per lanciare la prima pietra e poi allontanarsi con la coscienza tranquilla?

E siccome insistevano nell’interrogarlo, alzò il capo e disse loro: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”. E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi (Gv 8, 7-9).

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